Critica
Testo critico di Enrico Mascelloni.
Del segno e sul dubbio.

Dalla Guarda è artista che ha dalla sua un segno potente e persino feroce. In alcuni casi si fa secco e elementare. In altri lo avvinghia su se stesso costringendolo a lunghe ed articolate peripezie (La parabola dei ciechi del 1984), sciogliendolo quindi da intenzionalità più semplificate. In tal modo costruisce un groviglio barocco, carico però della tesa configurazione del segno; finendo quindi per immetterlo in una tradizione lunga e sontuosa: quella che muovendo da Tintoretto e giungendo sino a Vedova contiene per lui, vicentino, i caratteri di una sorta di genius loci. È questa, infatti, una tradizione che ha varcato con sufficienti ambizioni ed indubbia freschezza le "Colonne d'Ercole" della modernità, forte di qualcosa di simile ad una "rendita di posizione", cioè della dimostrata capacità di saper far vibrare le immagini immettendovi elementi di precarietà e di dubbio, così come già Tintoretto aveva reso nervosa ed impacificata la serica sensualità di un “tizianismo” già calcificatosi, prima della rivoluzionaria vecchiaia del maestro stesso, in maniera. E’ ben noto quanto peserà, da Goya al primo Cezanne sino ad alcuni “espressionismi” del nostro secolo, tale accelerazione del segno e del gesto.
Lungi dal volere inscatolare in quattro righe un pezzo importante della storia di cui sopra ha il semplice scopo di tratteggiare l’alveo dove scorre il suo linguaggio, giacché l’arte, prima di ogni altra cosa, prende le mosse dall’arte stessa. Ed il suo segno così “invadente” ha certamente l’esemplarità di una radice profonda e carica di succhi multipli.
Ed il colore, viene da chiedersi? Non sarà mica marginalizzare, nel caso di Dalla Guarda, quanto appartiene alla pittura veneta, e poi all’espressionismo, come sua sostanza persino naturale e centrale come nessun’altra?
Non sia mai detto!, giacché per quanto Dalla Guarda tenda spesso a trasformare il segno in colore, in massa cromatica, in elemento che si dilata sino ad invadere la superficie, il colore stesso ha una sua autonomia che merita qualche precisazione. Ed in primo luogo va avvertita una sua natura libera e scarsamente programmatica anche rispetto alla tesa centralità del segno. Nel senso che il colore da un lato sembra pedinare quest'ultimo, facendosi tenero e diafano dove questi si scioglie e contorna le figure in maniera più tenue (Alexa nel giardino, dei cavalli di pietra del '91, ricamo cromatico di grande calligrafia, che da Chagall a Pascin par ripercorrere alcuni nodi linguistici del secolo), oppure si staglia brutale quando il segno marca con decisione il campo pittorico; dall'altro sembra contraddire l'impulsività del segno, laddove il colore tende a sparire, a farsi da parte, per lasciare libero campo alla volitiva immanenza di questo, oppure cerca le tonalità più cremose o le velature più liquide, come per indispettire il virtuosismo più plateale del segno stesso.
Se è quindi lecito definire "espressionista" la poetica di Girolamo Dalla Guarda, è bene tralasciare, però, subito dopo, tale termine-contenitore ormai super frequentato, giacché l'arte sua si radica certamente nella linea che abbiamo sopra sommariamente tratteggiato, ma lo fa senza programmare il proprio linguaggio, senza cioè una particolare elaborazione teorica, che egli sembra ritenere superflua e persino suscettibile di distogliere lo sguardo dall’auto-significazione del gesto pittorico. Pertanto nel contesto delle trans-avanguardie e dei neo-espressionismi montanti degli anni ’80, a cui l’iter di Dalla Guarda è in qualche modo parallelo, egli può tranquillamente essere definito un “fuori strada”.
E lungi dal celebrare in tale epiteto l'ultima epopea dell' "ingenuo", del pittore tutto istinto ed ossessione, si vuol piuttosto qui evidenziare un percorso solitario - come peraltro quello di altri artisti contemporanei -, un sentiero isolato ma non residuale, un libero percorrere le fitte trame dell'arte che sembra disinteressato ad ogni logica omologante o programmatica.
Credo peraltro che ben sappia, Dalla Guarda, quanto i sentieri solitari riserbino il piacere e la sorpresa di incontri straordinari, seppur rari. Quella sua ironia già colta da Magagnato sarà un efficace compagno di strada. Potrà essere la bussola decisiva per non perdersi tra le inutili decoratività di questo nostro curioso presente.

Spoleto, luglio 1995
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